lunedì

A Messina sentenza shock: “La mafia non esiste”

di Antonio Mazzeo

A Barcellona Pozzo di Gotto va in scena “L’elogio dell’impunità”. Potrebbe benissimo trattarsi di un adattamento teatrale metà commedia e metà farsa se nello sfondo non ci fosse la tragedia di una guerra di mafia che negli anni ’80 ha visto decine e decine di morti ammazzati tra la Piana di Milazzo e l’area dei Nebrodi, nella fascia tirrenica della provincia di Messina. Cosche contro cosche, famiglie contro famiglie, per accaparrasi appalti e subappalti del nuovo tracciato ferroviario Messina-Palermo e gestire discariche di rifiuti, cave e le colate di cemento che hanno devastato la costa e gli alvei di fiumi e torrenti. Omicidi e sparizioni forzate di anziani boss e piccoli spacciatori neanche maggiorenni, esecuzioni efferate nello stile di ciò che accadeva negli stessi anni con la “guerra sucia” in Centroamerica, sotto la mano di eserciti e paramilitari.

Dopo l’oblio collettivo di quei terribili anni, arriva, proprio come nei tribunali di mezza America latina, il colpo di spugna della “giustizia” peloritana. La corte d’assise d’appello di Messina ha emesso la sua sentenza nel maxiprocesso denominato Mare nostrum, ribaltando il dispositivo di primo grado: dimezzati gli ergastoli (da 28 a 14), sfumato il reato associativo di mafia, prescritti tutti i reati “minori” e quelli legati al porto d’armi, una pioggia di assoluzioni per buona parte dei 130 imputati. La corte, in particolare, ha annullato l’ergastolo al riconosciuto boss mafioso Giuseppe Gullotti, condannato in primo grado per il duplice omicidio Iannello-Benvegna. Gullotti, almeno per ora, continuerà a scontare in carcere la condanna a 30 anni (passata in giudicato), quale mandante dell’assassinio del giornalista de La Sicilia, Beppe Alfano.

Resta dunque ben poco di quello che fu il castello accusatorio che portò nel biennio 1992-93 alle operazioni “Mare Nostrum 1 e 2”, quando le forze dell’ordine eseguirono 580 arresti di presunti appartenenti alle organizzazioni criminali di Barcellona, Tortorici, Patti e Sant’Agata di Militello. A far scattare le indagini, furono innanzitutto le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Orlando Galati Giordano e Giuseppe “Pino” Chiofalo”, personaggi ai vertici delle cosche di Tortorici (il primo) e Terme Vigliatore (il secondo), usciti perdenti dalla sanguinosa lotta con i nuovi alleati locali dei “corleonesi”. Soprattutto Pino Chiofalo aveva ricostruito con dovizia di particolari i legami della criminalità con imprenditori, magistrati, amministratori e politici locali, ministri e sottoministri. Uno spaccato di borghesia mafiosa che gli inquirenti hanno deciso però di destoricizzare e decontestualizzare, spezzettando il racconto del boss con perizia chirurgica, ma soprattutto astenendosi dalla ricerca di possibili riscontri sul “terzo livello”. Al vaglio del Tribunale restarono solo i fatti di sangue e le estorsioni, mentre i traffici di stupefacenti furono affidati ad un procedimento-stralcio (Mare nostrum droga), il cui processo di appello si è concluso il 13 novembre scorso con l’assoluzione di tutti e 32 gli imputati (in primo grado erano state 14 le condanne con pene dai 5 a i 14 anni).

«Una sentenza della Corte d’Appello di Messina che lascia stupefatti», è il commento a caldo del senatore del PD Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia che proprio alla pericolosità della mafia della provincia di Messina aveva dedicato un intero capitolo della Relazione di minoranza della Commissione della XIV legislatura. «Sento il bisogno di rompere il riserbo nel commentare le sentenze», aggiunge Lumia. «La mafia barcellonese non può rimanere impunita. Gullotti e gli altri boss sono una minaccia reale, perché fanno parte di Cosa nostra militare e sono collocati nel cuore delle collusioni con la politica e i poteri deviati. Bisogna ritornare ad occuparsi con più incisività del condizionamento mafioso a Messina e in particolare nell’area barcellonese, così come del ruolo di una parte della magistratura, dei poteri collusi sul versante economico-politico e istituzionale, affinché lo Stato torni ad affermare la sua sovranità democratica anche in queste realtà territoriali».

Durissimo il commento di Fabio Repici, avvocato di parte civile nei più importanti processi di mafia svoltisi nel capoluogo dello Stretto (l’omicidio della stiratrice diciassettenne Graziella Campagna, quello del giornalista Alfano, ecc.) e legale di fiducia della famiglia del docente universitario Adolfo Parmaliana, morto suicida il 2 ottobre 2008 dopo aver appreso di un’indagine avviata nei suoi confronti a seguito delle sue documentate denunce su malapolitica, mafia e affari nel Comune di Terme Vigliatore. «La famiglia mafiosa più potente della provincia di Messina e più impunita d’Italia può riprendere serenamente il comando del territorio, nella società criminale e naturalmente pure nella società legale», scrive Repici in una lettera aperta. «La sentenza di Mare Nostrum è solo l’ultimo atto di un grado di giudizio che aveva fatto registrare accadimenti inediti nella storia giudiziaria italiana. Il clima del processo ebbe un mutamento allorché la corte, adeguandosi ad una nuova perizia (dopo ben 9 di segno contrario espletate da esperti di ogni parte d’Italia) che, con argomentazioni a dir poco stravaganti, aveva fornito parere favorevole sulla capacità di rendere esame del collaboratore di giustizia barcellonese Maurizio Bonaceto, aveva deciso di estromettere dal fascicolo i verbali delle dichiarazioni rese a suo tempo da Bonaceto e di disporne l’esame». Rientrato nel 1997 a Barcellona presso i suoi familiari dopo aver interrotto la propria collaborazione processuale, Bonaceto aveva tentato il suicidio lanciandosi dal terrazzo della propria abitazione, rimanendo gravemente menomato nel fisico e nella mente. «Davanti alla corte comparve allora una larva d’uomo che, palesemente incapace di orientarsi, dietro consiglio del suo nuovo legale affermò con qualche difficoltà di non voler rispondere», ricorda il legale. «A quel punto i pubblici ministeri chiesero di acquisire comunque i vecchi verbali di Bonaceto, asserendo che il suo comportamento attuale era da ricondurre alle minacce rivoltegli da esponenti della mafia barcellonese, secondo quanto si ricavava da un suo verbale d’interrogatorio del 24 maggio 1993». Particolare non certo secondario il mai interrotto rapporto di lavoro del fratello del collaboratore di giustizia presso la grande impresa di autodemolizioni intestata alla madre di un altro importante boss barcellonese, Salvatore Ofria.

«Acquisite finalmente le dichiarazioni rese da Bonaceto, alcuni difensori (ed in particolare quelli del boss Giuseppe Gullotti) si adoperarono con strumenti inconsueti per cercare di minarne la credibilità», prosegue Fabio Repici. «Il 9 marzo 2009, uno dei due difensori di Gullotti, l’avvocato Franco Bertolone (che non aveva preso parte al processo fino alla sentenza di primo grado, per essere stato raggiunto dalle accuse del collaboratore Giuseppe Chiofalo, che lo aveva indicato come “consiglieri” della famiglia mafiosa barcellonese grazie ai suoi stretti rapporti con un magistrato, il dottor Cassata, oggi Procuratore generale di Messina) lesse un inconsulto documento anonimo che avanzava dubbi sull’attendibilità di Bonaceto, ma si risolveva anche in un attacco personale soprattutto contro la mia persona e quella di Piero Campagna, fratello della povera Graziella, assassinata nel 1985. Di questo documento veniva letta soltanto una parte, nella quale, in sintesi, si affermava che Bonaceto aveva probabilmente mentito sull’omicidio Alfano, che il boss Gullotti e il killer Antonino Merlino, pur definitivamente condannati, erano in realtà innocenti, che io avevo ben contezza della loro innocenza per avermela confidata Piero Campagna, che io però mai avrei riferito all’autorità giudiziaria ciò che sapevo, per non scagionare i due mafiosi condannati».

A rendere più torbida la vicenda, l’accertamento delle generalità dell’estensore del documento, il sostituto procuratore della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto, Olino Canali, che nel processo di primo grado aveva svolto le funzioni di pubblico ministero. E la volontaria omissione da parte dell’avvocato Bertolone della lettura di un successivo passaggio della missiva in cui il Canali scriveva che «Franco Bertolone è il Franco Cassata degli avvocati barcellonesi». Una frase che, sempre secondo Repici, «poteva essere considerata perfino un riscontro alle vecchie accuse del pentito Chiofalo», relative a un presunto stretto legame tra il legale e il magistrato. Proprio il Chiofalo, il 20 febbraio 2004, nel corso della sua deposizione al processo di Catania a carico del magistrato messinese Giovanni Lembo e del boss Michelangelo Alfano poi “suicida”, si era soffermato su un viaggio da lui fatto a Milano in compagnia del legale barcellonese, nel lontano 1972-73, a cui avrebbe partecipato pure Antonio Franco Cassata, al tempo già magistrato. «Avevo dei processi ed io e il mio avvocato all’epoca, Francesco Bertolone, dovendo andare a Milano con l’automobile ci siamo portati dietro un suo amico che poi apprendevo era il giudice Cassata…». Del viaggio a Milano del giudice «su una Mercedes di proprietà del pluriomicida Chiofalo» aveva parlato anche l’ex senatore democristiano Carmelo Santalco in un esposto al Presidente della Repubblica del 6 giugno 2000, successivamente rimesso al Consiglio Superiore della Magistratura che doveva valutare la supposta “incompatibilità ambientale” del dottor Cassata (il procedimento davanti al CSM si è poi concluso in modo favorevole per il magistrato).

Dopo la rinuncia al mandato difensivo da parte dell’avvocato Repici che rappresentava alla corte la sua disponibilità a testimoniare e l’invio di un fax alla Procura generale in cui il dottor Canali riconosceva la paternità del documento letto in aula dall’avvocato Bertolone, veniva disposta la testimonianza del sostituto procuratore di Barcellona, che essendo stato Pm in primo grado, si trovava nella situazione di incompatibilità con l’ufficio di testimone prevista dal codice di procedura penale. «Il dr. Canali testimoniò in due successive udienze, facendo affermazioni plasticamente false», aggiunge Repici. «Per questo egli è oggi indagato dalla Procura di Reggio Calabria per falsa testimonianza e per favoreggiamento del boss Gullotti».

La Procura aveva riaperto nel frattempo l’indagine derivante dall’informativa Tsunami, redatta nel 2005 dalla Compagnia dei carabinieri di Barcellona, che aveva documentato presunti comportamenti illeciti del dottor Antonio Franco Cassata e le frequentazioni fra il Canali ed il cognato del boss Gullotti. «A far riemergere dai cassetti l’informativa era stata la tragica morte di Adolfo Parmaliana», scrive il legale. «La sua ultima lettera, con le accuse al “clan” della “giustizia messinese/barcellonese”, aveva indotto la Procura di Patti a trasmettere il fascicolo sul suicidio di Adolfo alla Procura di Reggio Calabria. La situazione è oggi ancora in fibrillazione. Perché se il dr. Canali è stato costretto a lasciare il distretto giudiziario messinese e le funzioni di pubblico ministero, il dr. Cassata, seppure considerato, anche in atti ufficiali, il più alto referente istituzionale della famiglia mafiosa barcellonese, è ancora incredibilmente il Procuratore generale di Messina. Però, avendo di recente il dr. De Feis riferito alla Procura di Reggio Calabria la verità sulle intimidazioni subite ad opera del Cassata nel 2005, come riportate nell’informativa Tsunami, quest’ultimo ha ragione di temere che la Procura possa determinarsi a procedere nei suoi confronti e che il CSM si senta costretto ad aprire un procedimento disciplinare o paradisciplinare».

È il circolo culturale paramassonico barcellonese “Corda Fratres”, di cui proprio il Cassata è da sempre instancabile animatore, a costituire la migliore vetrina dell’esercizio delle relazioni di potere dell’intera provincia di Messina. Fondato nel 1944, “Corda Fratres” – il cui nome completo è “Fédération Internazionale des Etudiants “Corda FratresConsulat de Barcellona (Sicilia)” – vede tra i suoi soci i nomi di grido della classe dirigente politica locale (il senatore del Pdl Domenico Nania, già capogruppo al Senato di An e l’odierno sindaco di Messina ed ex presidente della Provincia, Giuseppe Buzzanca, anch’egli post-fascista), giudici onorari, avvocati tra cui lo stesso Francesco Bertolone, professionisti, imprenditori, ecc.. Nelle liste della “Corda Fratres” compaiono pure i nomi di ben 16 iscritti alle logge del Grande Oriente d’Italia “Fratelli Bandiera” e “La Ragione”. Tra i “soci onorari”, due ex generali dei Carabinieri, Giuseppe Siracusano (tessera P2 n. 496) e Sergio Siracusa, già direttore del SISMI ed ex Comandante generale dell’Arma. Di questa associazione ha fatto pure parte il boss mafioso Giuseppe Gullotti, “allontanato” solo nel febbraio 1993, dopo la visita nella città del Longano della Commissione Parlamentare Antimafia. Presenza altrettanto inquietante quella dell’avvocato Rosario Pio Cattafi, “compare d’anello” del Gullotti, che inquirenti e collaboratori di giustizia ritengono operare su ben più alti livelli criminali.

«Nulla sembra poter fermare le follie del “rito peloritano”, della giustizia alla messinese», conclude amaramente Fabio Repici. «Nessun segnale di attenzione viene da parte degli organi dello Stato per la provincia di Messina, per questa Corleone del terzo millennio che è Barcellona Pozzo di Gotto, per i miasmi della giustizia messinese. Fino a che nel resto della nazione non ci si decida ad accendere un riflettore sui misfatti di quella provincia, il buio, materiale e morale, continuerà a sommergerla».



Le follie del rito peloritano. Lettera dell'avvocato Fabio Repici

Cari amici e care amiche,
oggi la corte d'assise d'appello di Messina ha emesso la sentenza di secondo grado nel maxiprocesso denominato Mare nostrum, riguardante le associazioni mafiose operanti sulla costa tirrenica della provincia di Messina, decine di omicidi e tanti altri delitti verificatisi in quel territorio negli anni Ottanta e Novanta. Qualcuno di voi avrà già saputo delle numerose assoluzioni piovute, spesso in riforma di condanne pronunciate in primo grado. La sentenza di oggi, però, è solo l'ultimo atto di un grado di giudizio che aveva fatto registrare accadimenti inediti nella storia giudiziaria italiana. Ve ne accenno sommariamente alcuni. Il clima del processo ebbe un mutamento allorché la corte, adeguandosi ad una nuova perizia (dopo ben nove di segno contrario espletate da esperti di ogni parte d'Italia) che, con argomentazioni a dir poco stravaganti, aveva fornito parere favorevole sulla capacità di rendere esame del collaboratore di giustizia barcellonese Maurizio Bonaceto (che nel 1997, tornato a Barcellona Pozzo di Gotto presso i suoi familiari dopo aver interrotto la propria collaborazione processuale, aveva tentato il suicidio lanciandosi dal terrazzo della propria abitazione, rimanendo gravemente menomato nel fisico e nella mente), aveva deciso di estromettere dal fascicolo i verbali delle dichiarazioni rese a suo tempo da Bonaceto e di disporne l'esame. Davanti alla corte comparve allora una larva d'uomo che, palesemente incapace di orientarsi, dietro consiglio del suo nuovo legale affermò con qualche difficoltà di non voler rispondere. A quel punto i pubblici ministeri chiesero alla corte di acquisire comunque i vecchi verbali di Bonaceto (ai sensi dell'art. 500 comma 4 c.p.p.), asserendo che il suo comportamento attuale era da ricondurre alle minacce rivolte a Bonaceto da esponenti della mafia barcellonese, secondo quanto si ricavava da un suo verbale d'interrogatorio del 24 maggio 1993. E' stato solo quando io, intervenendo in udienza, ho segnalato che tuttora, come nel 1993, il fratello di Bonaceto fa il ragioniere nella grande impresa di autodemolizioni controllata dal boss barcellonese Salvatore Ofria (seppure intestata alla madre Carmela Bellinvia) che i pubblici ministeri, come avevo sollecitato, produssero una relazione del R.o.s. che attestava quanto da me detto. A quel punto la corte acquisì i verbali delle dichiarazioni rese da Bonaceto, perché sussistenti gli elementi concreti circa le pressioni subite dal collaboratore di giustizia per evitare di deporre. Tornate nel fascicolo della corte le dichiarazioni di Bonaceto, alcuni difensori (ed in particolare i difensori del boss Giuseppe Gullotti, mandante dell'omicidio del giornalista Beppe Alfano) si adoperarono con strumenti inconsueti per cercare di minarne la credibilità. Infatti, il 9 marzo 2009, uno dei due difensori di Gullotti, l'avvocato barcellonese Franco Bertolone (che non aveva preso parte al processo fino alla sentenza di primo grado, per essere stato raggiunto dalle accuse del collaboratore di giustizia Giuseppe Chiofalo, che lo aveva indicato come "consigliori" della famiglia mafiosa barcellonese grazie ai suoi stretti rapporti con un magistrato, il dr. Cassata; ma la quarantena non veniva più ritenuta evidentemente necessaria per il giudizio d'appello, non si sa se perché il grande amico dell'avv. Bertolone, il dr. Franco Cassata, era stato nelle more nominato Procuratore generale di Messina dall'ineffabile Csm) lesse un inconsulto documento anonimo (che avanzava dubbi sull'attendibilità di Bonaceto, ma si risolveva anche in un attacco personale, fra gli altri, soprattutto contro la mia persona e quella di Piero Campagna, fratello della povera Graziella, assassinata nel 1985 a diciassette anni) il cui autore veniva identificato da quel legale nel dr. Olindo Canali, sostituto procuratore della Repubblica a Barcellona Pozzo di Gotto, che nel processo di primo grado aveva svolto le funzioni di pubblico ministero. Di questo documento veniva letta soltanto una parte, nella quale, in sintesi, si affermava che Bonaceto aveva probabilmente mentito sull'omicidio Alfano, che il boss Gullotti e il killer Antonino Merlino, pur definitivamente condannati, erano in realtà innocenti rispetto all'omicidio Alfano, che io avevo ben contezza della loro innocenza per avermela confidata Piero Campagna, che io però mai avrei riferito all'autorità giudiziaria ciò che sapevo, per non scagionare i due mafiosi condannati. Tutto questo veniva letto davanti a numerosi imputati ed innanzi allo stesso boss Gullotti, che ascoltava attentamente in videoconferenza dal 41 bis e che qualche udienza dopo intervenne per approvare al riguardo l'operato dei suoi difensori. Il documento letto dall'avv. Bertolone conteneva tante altre affermazioni, che però non venivano lette. Fra di esse, quella secondo cui "Franco Bertolone è il Franco Cassata degli avvocati" barcellonesi, frase che, a ben vedere, poteva essere considerata perfino un riscontro alle vecchie accuse del pentito Chiofalo. Sulla scorta di quel documento i difensori di Gullotti, cui si associavano numerosi altri, chiedevano la citazione come testimone del dr. Canali, perché questi riferisse sui sospetti relativi alle dichiarazioni di Bonaceto sull'omicidio Alfano. Vale osservare che l'omicidio Alfano non compariva fra le imputazioni del processo Mare nostrum e che, tuttavia, i difensori di Gullotti sostenevano il loro interesse ad approfondire anche quell'argomento alla ricerca di elementi per proporre istanza di revisione della sentenza definitiva di condanna. La corte, però, si trovava costretta a rigettare l'istanza non per l'irrilevanza rispetto alle imputazioni, ma perché formalmente sconosciuto l'autore del documento, da qualificarsi quindi come anonimo. A quel punto io, che ero stato oggetto di spiacevoli apprezzamenti da parte di alcuni difensori, oltre che del documento anonimo, senza che la corte battesse ciglio, rinunciavo al mandato difensivo rappresentando alla corte la mia ovvia disponibilità a testimoniare. Qualche giorno dopo il rigetto della corte sulla sua testimonianza era direttamente il dr. Canali ad inviare un fax alla Procura generale con il riconoscimento della riconducibilità a lui del documento letto dall'avv. Bertolone. Con questa nuova evenienza, la corte disponeva la testimonianza del dr. Canali, che pure era stato pubblico ministero in primo grado e che, quindi, si trovava nella situazione di incompatibilità con l'ufficio di testimone prevista dall'art. 197 lett. d) del codice di procedura penale. Il dr. Canali testimoniò in due successive udienze, facendo affermazioni plasticamente false. Per questo egli è oggi indagato dalla Procura di Reggio Calabria per falsa testimonianza e per favoreggiamento del boss Gullotti. Inutile,però, è tacere che ciò è avvenuto solo per effetto della mia denuncia, nel silenzio di tanti, pur consapevoli della falsità di certe affermazioni.
La Procura di Reggio Calabria nel frattempo aveva riaperto l'indagine derivante dall'informativa Tsunami, redatta nel 2005 dalla Compagnia dei carabinieri di Barcellona Pozzo di Gotto, che aveva documentato comportamenti illeciti del dr. Antonio Franco Cassata e le intime frequentazioni fra il dr. Canali ed il cognato del boss Gullotti. A far riemergere dai cassetti l'informativa Tsunami era stata la tragica morte di Adolfo Parmaliana. La sua ultima lettera, con le accuse al "clan" della "giustizia messinese/barcellonese", aveva indotto la Procura di Patti a trasmettere il fascicolo sul suicidio di Adolfo alla Procura di Reggio Calabria.
In effetti, posso affermare che è stato il suicidio di Adolfo a terremotare la situazione giudiziaria messinese. Da quel triste giorno, 2 ottobre 2008, gran parte della magistratura messinese associata si è chiusa a riccio in difesa delle sorti del Procuratore generale Cassata e del dr. Canali. Molti ricorderanno come la settimana dopo il suicidio di Adolfo i muri del palazzo di giustizia di Messina vennero tappezzati con manifesti dell'Anm che mi additavano nominativamente come un nemico pubblico.
La situazione è oggi ancora in fibrillazione. Perché se il dr. Canali è stato costretto a lasciare il distretto giudiziario messinese e le funzioni di pubblico ministero, il dr. Cassata, seppure considerato, anche in atti ufficiali, il più alto referente istituzionale della famiglia mafiosa barcellonese, è ancora incredibilmente il Procuratore generale di Messina. Però, avendo di recente il dr. De Feis riferito alla Procura di Reggio Calabria la verità sulle intimidazioni subite ad opera del dr. Cassata nel 2005, come riportate nell'informativa Tsunami, il dr. Cassata ha ragione di temere che la Procura di Reggio Calabria possa determinarsi a procedere nei suoi confronti e che il Csm si senta costretto ad aprire un procedimento disciplinare o paradisciplinare nei suoi confronti. In questa situazione di limbo e di attesa, la criminalità barcellonese sta raccogliendo incredibili fortune giudiziarie. E' solo di una decina di giorni fa la sentenza della corte di appello di Messina nel processo Mare nostrum-droga, che ha visto l'assoluzione generalizzata di tutti gli imputati. Come se a Barcellona Pozzo di Gotto non sia esistito traffico di droga e con la conseguenza che, fra gli assolti, c'è pure un amico di famiglia del dr. Cassata, naturalmente difeso dall'avv. Bertolone. Oggi, poi, c'è stata l'assoluzione di numerosi ed importanti mafiosi barcellonesi dall'imputazione di associazione mafiosa e dalle imputazioni relative ad alcuni omicidi. In particolar modo, risalta l'assoluzione del boss Gullotti, già beneficiato dalla falsa testimonianza del dr. Canali, per il duplice omicidio Iannello-Benvenga, per il quale in primo grado aveva ricevuto l'ergastolo. Il boss Gullotti può cominciare, quindi, da stasera a pensare ad un non troppo lontano ritorno in libertà, se si tiene conto del fatto che la condanna per l'omicidio Alfano, a causa dell'omessa contestazione dell'aggravante della premeditazione (omissione di cui è responsabile il dr. Canali), fu alla pena di trent'anni e non all'ergastolo. In definitiva, in queste settimane molti mafiosi e narcotrafficanti barcellonesi tornano lindi in società con un marchio di onestà riconosciuto loro dagli organi giudiziari messinesi. Dopo sedici anni, si torna alla Barcellona in cui la mafia non esiste, come se l'uccisione di Beppe Alfano e la morte di Adolfo Parmaliana non siano servite a nulla. La famiglia mafiosa più potente della provincia di Messina e più impunita d'Italia può riprendere serenamente il comando del territorio, nella società criminale e naturalmente pure nella società legale. Del resto, ormai, la barcellonesizzazione di Messina, come ripeto da tempo, è cosa fatta: il Procuratore generale di Messina è il barcellonese Franco Cassata, il politico più in vista della provincia è il barcellonese Domenico Nania, il sindaco di Messina è il barcellonese Giuseppe Buzzanca. Tutt'e tre sono soci del circolo culturale paramassonico barcellonese Corda Fratres, di cui era riverito socio anche il boss Giuseppe Gullotti.
Nulla sembra, invece, poter fermare le follie del "rito peloritano", della giustizia alla messinese. Nessun segnale, invece, viene di attenzione da parte degli organi dello Stato per la provincia di Messina, per questa Corleone del terzo millennio che è Barcellona Pozzo di Gotto, per i miasmi della giustizia messinese. Rimarranno i soliti sparuti illusi a invocare verità e giustizia, ad indicare al paese le nefandezze degli apparati del potere, le meschinità delle deviazioni istituzionali, gli intrallazzi di manutengoli della politica, dell'economia, della magistratura, dei servizi segreti, dell'informazione. Verranno ulteriormente aggrediti come invasati persecutori di uomini onesti e infangatori di istituzioni specchiate. Fino a che nel resto della nazione non ci si decida ad accendere un riflettore sui misfatti di quella provincia, il buio, materiale e morale, continuerà a sommergerla.
Vi chiedo scusa per aver abusato della vostra attenzione ma mi sarei sentito un disertore a non scrivere queste righe.
Fabio Repici

venerdì

Dichiarazioni di Napolitano e relativa traduzione.


Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano interviene così sulle violenti polemiche tra governo e magistratura:

Va ribadito che nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare.


Insomma anche dal Colle si rinnova la solita scusa. Quindi urge una
traduzione:

Il governo ha la maggioranza, è stato eletto dal popolo quindi anche se è formato da mafiosi e corrotti non solo può, ma deve restare al suo posto.
Me lo ha detto Berlusconi.
La magistratura si adegui.


Foto da Repubblica.it

Finché c’è guerra c’è speranza


di Antonio Mazzeo

Il 20 novembre 2009, una sessantina tra operatori sanitari di cliniche pubbliche e private romane, piloti e personale logistico dell’Aeronautica militare e dirigenti di Alenia (Finmeccanica), società leader nella produzione di cacciabombardieri e aerei da trasporto truppe, sono partiti da Pratica di Mare alla volta dell’Africa occidentale. Destinazione il Mali, un paese partner degli Stati Uniti nella campagna regionale contro il “terrorismo” e le organizzazioni islamiche radicali.(...)
Per l’occasione è stato trasferito in Mali pure il nuovo prototipo di velivolo da trasporto tattico C-27J “Spartan” prodotto da Alenia Aeronautica in joint venture con alcune aziende del complesso militare industriale statunitense.(...)
“Valori” che puntano “di fondo” a promuovere nel continente nero l’ultimo gioiello di guerra “made in Italy”, già ordinato da Grecia, Bulgaria, Lituania, Marocco dal Dipartimento della Difesa USA per rinnovare la flotta aerea del trasporto truppe.
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mercoledì

L'ultimo sforzo.

Avevo circa dodici anni e trascorrevo l’estate al mare.

C’erano tanti altri miei coetanei e trascorrevamo felici le vacanze.

Una volta organizzammo una caccia al tesoro ed in una delle tappe era prevista la pesca di dieci paguri nel minor tempo possibile e comunque prima delle altre squadre.

Si trattava di gettarsi nelle acque del tirreno verso le sette di sera e in apnea trovare tra la sabbia dei fondali quasi desertici i piccoli crostacei.


Arrivammo in spiaggia quasi tutti contemporaneamente.

Corremmo verso il mare calmo ed accogliente facendo volare le maglie e le scarpe in aria per non perdere tempo.

Nuotammo verso il largo a pelo d’acqua.

Di tanto in tanto ci immergevamo per scrutare piccoli segni sulla sabbia ondulata.

Ripensavo a questa esperienza leggendo la cronaca delle inchieste giudiziarie avviate in varie procure italiane per la ricerca della verità sulle stragi del 1992 e 1993.


Per un periodo sembrava che tutto si fosse fermato.

Calmato e normalizzato.

Da qualcuno quasi cancellato, abrogato, prescritto.

Poi la svolta.

Alcuni tasselli vengono rimessi al proprio posto.

Inquirenti, giornalisti, investigatori e gente comune incomincia a intravedere nuovamente un possibile scenario.

Si riascoltano i collaboratori e si cercano incartamenti. Si ricontrollano schede telefoniche ed archivi dei servizi.

Non una ma tante procure ritrovano il bandolo della matassa.

La politica trema. Il governo ha paura e quando si ha paura spesso, si sa, si commettono cazzate.

Sul sito 19 luglio 1992 e sulle pagine de l’espresso si può leggere di come pian piano tutto si concentro in un senso.

Il senso della verità.

Basterebbe già leggere gli atti per far tremare un paese democratico.

Ma l’Italia non lo è più da tanto.

Ecco quindi che mi riaffiorano quei ricordi.

Avevo nove paguri dentro il costume e cercavo senza più fiato ormai il decimo.

Scendevo giù e risalivo per rifiatare.

Guardavo anche se gli altri erano ancora in acqua.

Gli occhi mi bruciavano per la salsedine ed ero molto stanco.

Nuotavo più lentamente e confondevo piccoli sassolini con le conchiglie.

I paguri si muovevano fastidiosamente stretti tra il tessuto sintetico elastico del costume e gli ormai raggrinziti attributi.

Qualcuno dei concorrenti stava uscendo dall’acqua.

Correva a ritrovare gli indumenti per avviarsi vittorioso alla successiva tappa.

Consegnava per la conta i paguri che sarebbero stati liberati alla fine della gara.


Ero ormai allo stremo. Vedo qualcosa. Scendo giù.

Un sasso. Non avevo più le forze.

Non risalgo e piano mi guardo intorno sul fondale.

Dovevo trovare l’ultimo. Non avevo più aria.

Un cerchio alla testa mi opprimeva.

Sentivo di essere al limite.

Poi a qualche metro lo vedo.

Con l’ultimo residuo di energia arrivo a prenderlo ma l’assenza di aria mi spinge a risalire troppo velocemente.

Avverto come un graffio nell’inguine. Prendo fiato e guardo verso il fondo.

Un paguro era riuscito a sfuggire dalla morsa di lycra e pelle.

Ero sfinito. Il paguro felice aveva ripreso a camminare sul fondo di sabbia.


Non credevo di poter trovare la forza per riscendere.

Non sarei riuscito a tornare a riva.

Dalla spiaggia i miei compagni di squadra mi incitavano, forse qualcuno mi insultava, ma ero distante e non riuscivo a capire bene.

Andai giù di nuovo. La testa era ormai stretta in una morsa insopportabile.

Le braccia non sembravano più appartenere al mio corpo come appendici pesanti e dolorose.

Ricordo lo sforzo per risalire e quello per ritornare piano verso la riva.

Ricordo l’assenza di fiato, la tosse e l’affanno.

Quella fatica e quel doloroso voler riuscire mi appare oggi come lo sforzo di chi sta ricercando la verità su quegli avvenimenti.

Tanti passi avanti, poi uno indietro.

Giungere alla fine prima della completa assenza delle forze.

Vedere il traguardo ma non poter contare quasi più su polmoni e muscoli.

Poi uno slancio che sembra a noi stessi incredibile.

Sono convinto che siamo vicini alla linea bianca dell’arrivo.


Nella mia memoria sono riapparse le immagini delle onde leggere che saltavano nei miei occhi rossi e il sapore della salsedine che bruciava le labbra.

Una delle pagine più oscure della storia del nostro paese sta per essere resa pubblica.

Qualcuno non vorrebbe.

Qualcuno teme la verità.

Qualcuno era convinto che l’aria nei polmoni non sarebbe bastata.

Ma l’urlo muto dei servitori dello stato uccisi dalla mafia e da un pezzo di stato stesso non deve far fermare chi sta compiendo fino alla stremo delle forze questo difficile cammino.

Noi possiamo incitarli dalla riva, gridare ed incoraggiarli.


Noi non dobbiamo permettere che possano fermarli.

Fino all’ultima bollicina d’aria che risiederà nei polmoni dovrà essere spesa nella faticosa apnea di chi vuole giustizia.

Siamo a nove e ne manca solo uno.

Le zone grigie dell’affaire commerciale di Barcellona PG



di Antonio Mazzeo

Può una società ufficialmente «inattiva» e con zero dipendenti a carico, ottenere in una decina di mesi ciò che non è stato concesso in tre anni ad una S.p.A. con fatturato annuo di 210 milioni di euro, 113 manager e più di 1.000 impiegati? La risposta è Sì se ci troviamo a Barcellona Pozzo di Gotto, comune del messinese dove proliferano cosche mafiose e logge massoniche più o meno deviate, e la società in questione è la Dibeca S.a.S. dei congiunti di Rosario Pio Cattafi, un pluripregiudicato già al centro di inquietanti inchieste su criminalità organizzata e traffici di droga e armi. Leggi tutto...

sabato

INVADETECI


Al presidente degli Stati Uniti d’America

E p.c. a tutti i dittatori del nostro pianeta.

Oggetto: Invasione Italia.

Vi prego di leggere e dare il giusto seguito a questa mia richiesta.

Invadeteci.

Conquistateci.

Insomma fermate questa orrenda dittatura, questo ripugnante regime che si ostinano a chiamare democrazia.


Lo stato che tratta con la mafia e nel piatto della bilancia vengono messi i cadaveri dei suoi servitori.

Lo stato che insabbia tutto, cancellando, omettendo e bloccando.

Lo stato che imbavaglia e diffama.

Lo stato e i suoi segreti ed i suoi complotti.

Lo stato che riesce a fare propaganda sulle disgrazie.

Con l’elmetto di protezione e l’elicottero della protezione civile.

La politica del fare. I morti ed i funerali di stato.

Le casse umide di lacrime innocenti e le bandiere.

Le new town ed il fango che uccide.

La disperazione ed i senatori che votano NO.

Lo stato che si autoprotegge.

Lo stato che distrugge il suo sistema giudiziario.

Lo stato che non protegge più i suoi cittadini di fronte alla legge.

Lo stato che respinge i corpi scuri che tra la schiuma mortale delle onde e la disperazione dell’aspettativa di una vita diversa.


Lo stato che uccide in carcere e per le strade.

Lo stato che non tutela.

Lo stato che ti rompe le vertebre e lascia che ti scorra il sangue.

Questa è il nostro paese.

Uguale nella sostanza a tutti quelli che invadete o che sono beneficiari della vostra esportazione di democrazia.

Mandate i marines i mujaheddin, i kamikaze.

Fateci bombardare dai vostri caccia, dai missili terra-aria e dalle pietre lanciate in nome di dio.

Siamo un popolo che è inconsapevolmente oppresso.

Siamo vittime. Lo siamo da cinquant’anni.

Ma ora di più.


Non abbiamo petrolio o ricchi giacimenti, però siamo geograficamente molto appetibili.

Noi siamo il centro del mediterraneo.

Potete fare altre basi militari o usarci come ponte per i vostri attentati terroristici.


Siamo culturalmente e geneticamente abituati a subire le invasioni.

Siamo culturalmente e geneticamente incapaci a difenderci da noi stessi.

Siamo il popolo ideale per essere assoggettato ad un qualunque regime.

Lo siamo da così tanto tempo che ci sembra la normalità.

Vedrete che nel giro di poco troverete anche chi vi appoggerà.


Nel porgervi i miei ringraziamenti per quanto vorrete fare, vi consiglio di contattare mafia, ‘ndrangheta e camorra per un loro proficuo contributo all’invasione, essendo dei validi mercenari ed esperti tecnici nei disegni eversivi.

Confidando in un vostro sollecito riscontro porgo i miei più distinti saluti.