Di getto rispondo alla mail.
Con il cuore e con l’istinto. Senza riflettere.
Perché sollecitato da quelle parole forti che hanno scosso la mente fino a scatenare il vortice dei ricordi.
Apro il rubinetto e lascio scorrere la mia intima risposta mista di ricordi e sofferenze. Non è un “post” da stostretto. Scrivo ed inoltro.
Salvatore Borsellino pubblica la mia mail.
Enrico Di Giacomo lo riprende sul suo sito.
Riporto quindi solo adesso il testo:
Avevo ventun'anni il 19 Luglio del 1992.
Da qualche ora mi trovavo in ospedale a far visita a mia madre.
L'Oncologico era nella periferia nord di Messina.
Attorno solo campagna.
Il sole con il suo riverbero accecava di giallo e faceva esplodere di calore la vista.
Nella corsia c'era il fiato freddo dell'aria condizionata.
L'intervento era andato bene, ora si aspettavano i risultati.
Ogni giorno in quell'ospedale entravo e guardavo la morte in faccia.
In quell'ospedale come in tutti gli ospedali è così.
La morte era negli sguardi degli uomini e delle donne che aspettavano.
In pigiama e con la vestaglia aspettavano.
Avevano cicatrici e fazzoletti colorati sulla testa.
Quel pomeriggio come ogni giorno ero sceso al bar dell'ospedale per prendere un caffè ed immergermi per qualche minuto nell'asfissiante calore dell'esterno per una sigaretta.
Quel pomeriggio come ogni giorno c'era quel ragazzo nella sala d'attesa.
Veniva da fuori. Avrà avuto la mia stessa età.
La testa era liscia senza capelli e gli occhi sembravano persi nel cranio. Ci salutavamo sorridendo.
Lui era sempre solo. Forse i parenti erano lontani. Scambiavamo sempre qualche parola e prendevamo il caffè insieme.
A lui lo servivano in un bicchierino di plastica.
Anche lui aveva la morte disegnata sul volto.
Ogni volta il mio sguardo vedeva nei suoi occhi la sua e la mia morte.
Quel pomeriggio non lo vidi seduto sulle sedie di tessuto rosse ad aspettarmi.
Era già dentro al bar. Erano tutti dentro il bar.
Tutti davanti alla televisione che mostrava filmati che sembravano in bianco e nero.
La notizia in quel momento ed in quel posto suonava diversa. Dentro quelle mura la morte arrivava piano, silenziosa e senza violenza. In quella strada invece c'era tutta la violenza del mondo che è fuori.
C'era la rapida ferocia delle bombe.
C'era l'assurdo compimento di una sentenza degli uomini.
Io avevo poco più di vent'anni. In quel momento inconsapevolmente in me accadeva qualcosa. Cambiavo, miglioravo, mi evolvevo.
Vedevo in quel bar le facce della morte. Osservavo l'incredulità di chi la morte aveva dentro, dinanzi alla spietata distruzione della vita per mano mortale.
Adesso ho 36 anni. Sono sposato ed ho una figlia.
Io sono quello che ho vissuto. Io lo trasmetto a mia figlia di dieci anni.
Io sono anche un po', quel ragazzo che sorrideva prima di morire e quel pomeriggio che ha sconvolto la mia coscienza.
Io sono quella attesa sulle sedie in tessuto rosso e sono Paolo Borsellino.
Ho sentito la disperazione della morte ingiusta.
Ho sentito il boato del lacerare della dignità degli uomini ed il silenzio della sofferenza.
Immagini in bianco e nero mischiate a quelle dai colori accecanti sono impresse nei miei occhi.
Io sono questo.
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