Caso Messina ed omicidio Campagna.
Due procedimenti attorno ai quali ruotano in modo non contrapposto lo stato e la mafia.
Uno accanto all’altro, o forse uno dentro l’altro.
E’ l’intera storia politico-economica insieme a quella giudiziaria che nella città dello stretto si svolge sempre con gli stessi attori.
Da una parte la mafia, che comunque qualcuno si ostina a dire che sullo stretto non esiste, e dall’altra i poteri forti, gli imprenditori, i politici ed i magistrati.
Basterebbe dare uno sguardo e comparare la cronaca del processo di primo grado sulla gestione del pentito Luigi Sparacio, che ha visto la condanna, a 5 anni per favoreggiamento dell’associazione mafiosa del sostituto procuratore nazionale antimafia Giovanni Lembo, ed a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa dell’ex capo dei GIP di Messina Marcello Mondello, con il dossier sull’omicidio di Graziella Campagna, scritto nel ’97 dall’Associazione Antimafia “Rita Atria” di Milazzo insieme al Comitato per la pace ed il disarmo unilaterale di Messina (Armando Siciliano editore).
Storie parallele, verità nascoste una dentro l’altra. Un groviglio di fatti veri, false circostanze ma soprattutto tanti nomi eccellenti.
Michelangelo Alfano, uomo d’onore di Bagheria vicino a Bernardo Provenzano, tanto potente da essere stato lui stesso a “punciri” i boss locali come Sparacio e Marchese affiliandoli a Cosa Nostra, pur riuscendo ad edificarsi la facciata di buon imprenditore al fine di gestire i rapporti della Cupola con i “colletti bianchi” diventando perfino presidente della società del Messina Calcio.
Santo Sfameni, il “grande vecchio” del malaffare della fascia tirrenica della provincia. Nella sua masseria sarebbero stati ospiti i maggiori boss della Sicilia orientale come Salvatore Inzerillo o Stefano Bontade, ed aiutati a “svernare” pericolosi latitanti come Carlo Greco (alter ego di Pietro Aglieri), Nitto Santapaola e Gerlando Alberti jr, oltre i numerosissimi fuggitivi della provincia. Nel suo salotto si accomodavano anche numerosi politici, imprenditori e magistrati come Mondello e Recupero. Vero punto di riferimento per le “famiglie” locali dispensava favori di ogni genere, dal rilascio di licenze a attentati contro i nemici degli “amici”, risolveva liti tra clan o tra capi e soldati. Ma soprattutto i pentiti lo accreditano come il Garante dei rapporti con la Magistratura.
Da una parte quindi due uomini d’onore che facevano da collegamento tra la cupola palermitana, le ‘ndrine calabresi, le famiglie locali e i reggenti istituzionali della zona. Dall’altra due “potenti” magistrati che ricoprivano ruoli nevralgici nell’amministrazione della giustizia locale. In mezzo a tutto questo, chiaramente ci sono omicidi, estorsioni, appalti truccati e traffico di droga. C’era la cooperativa edilizia “Casa Nostra” e l’università di Messina con il suo prezioso Policlinico, polo d’unione tra gli interessi delle famiglie siciliane e calabresi.
Si intersecano storie di stragi (23/12/1984 - Rapido 904 – San Benedetto Val di Sambro – 16 morti e 266 feriti) dove si mescolano mafia, camorra, eversione nera e fascicoli che non si trovano, storie di assoluzioni rapide confidate ai boss e giudici che “dimenticano” di depositare le motivazioni di una sentenza di condanna per omicidio aprendo le porte al condannato. Ancora storie di pentiti veri che venivano gestiti in modo da non nuocere ed altri falsi che vivevano da Re, e storie di depistagli e deviazioni con la complicità dei poteri forti, massoneria e rappresentanti dello Stato.
Una organizzazione retta dai soliti noti, i boss dei vari clan messinesi, tutti insieme con i loro picciotti a spartirsi una provincia con la pistola in pugno, seminando terrore e sangue, seguendo un programma stabilito dalle “menti” del gioco, che elargendo favori e potere allargavano la partita al resto della penisola, con l’aiuto di chi, questi giochi, doveva perseguirli.
Gli uomini giusti al posto giusto, nella provincia “babba” possono rendere invisibile questo gioco anche per sempre.
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